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Articolo inserito in data 24/10/2008 09:37:42
I miei racconti
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GIANLUCA CARBONI - "Lo stambecco"

Questo racconto è pubblicato in Alpinia.net - Cose di montagna. Puoi leggerlo, stamparlo, ignorarlo o consigliarlo a un amico, ma ricorda che "tutti i diritti sul testo sono riservati".

Lo stambecco

Per arrivare a quest'ora quassù è stato necessario partire presto e ancora prima decidere che era giunto il momento di partire.
Ha camminato a lungo, pensando.
Si è distratto un attimo passando accanto al bivacco, in una dolce conca dell'alta valle, richiamato alla realtà dall'allegro confondersi di giovani voci che all'improvvivo, all'unisono, sono calate d'intensità: un gruppo di ragazzi, poco più che bambini, venuti da chissà dove, forse creati dal suo desiderio di confermarne l'esistenza, si stava organizzando per trascorrere lì la giornata e alcuni di loro hanno reagito con meraviglia e curiosità al suo arrivo, tacendo, obbligando inconsapevolmente a sussurrare gli altri.
In effetti non sono tanti a girare per monti a queste quote da soli, in effetti chi gira per monti da solo a queste quote è strano ed è probabile che lui lo sia particolarmente, se non altro per il suo pittoresco incedere, per il berretto dai mille colori, gli insostituibili pantaloni dai mille strappi, il giubbotto con mille tasche, nessuna vuota, e lo sguardo metallico e profondo che vorrebbe vedere oltre.
Non si è fermato, non ha parlato, non lo fa mai, ma ha sorriso loro.
Più in alto l'erba si è arresa definitivamente alla pietra e al freddo; dal passo, là avanti, una traccia scende vincendo un infinito pendio detritico mentre le pareti rocciose si avvicinano a destra e a sinistra, incombenti e brutali quelle ambrate che alte proteggono la cima della becca Rossa, più inclinate, fratturate e subdole quelle grigie che chiudono a nord la valle. Vi sono scuri canali che le incidono, paiono affrontabili, ma quasi sempre sono imbuti dove improvvisi precipitano macigni insensibili alle velleità di un eventuale scalatore.
Toccando il valico ha lasciato che i suoi fantasmi si salutassero e con pigrizia andassero ad acquattarsi in un angolo della mente, consapevoli di aver trovato un rifugio ospitale e dover unicamente attendere il momento propizio per tornare a volteggiare e incontrarsi. Li lascia fare, non  può, non vuole liberarsi di loro perché si nutrono della sua malinconia mantenendola a livelli tollerabili.
Il sentiero cala ad ovest in una grande valle solitaria che pare poi curvare verso sud, ma a lui non interessa, lui osserva la cresta che sale decisa verso nord definendo coi suoi cambiamenti di pendenza varie cime selvagge, luoghi severi che non dimostrerebbero pietà se perdesse un appiglio, e già li sta cercando, gli appigli, già chiede loro di esserci e di resistere alla sua trazione, promettendo di non respirare durante il passaggio, sentendosi finalmente in vita, avendo paura, finalmente, di sentire la vita.
Il sole è alto nel cielo azzurro, il tempo è splendido e può così impegnare qualche minuto per studiare il percorso che lo attende, una pausa breve perché la voglia di andare è fortissima, perché ha un bisogno vitale di toccare con le mani quelle pietre, di mantenersi in equilibrio, di maledire il sudore che gli scende negli occhi mentre si allunga verso un nasino di roccia sperando che regga: "... non ha prezzo poter scegliere se fare un passo o no, e dove farlo, e come farlo, e non ha prezzo che la scelta dipenda soltanto da me, che possa pagare soltanto io le conseguenze di un eventuale sbaglio e in cambio abbia il godimento assoluto derivante dalla successiva conferma di aver fatto la scelta giusta..."
Si accorge che sta tirando vento; è curioso che succeda perché ha visto correre delle piccole nubi bianche e non perché l'ha sentito addosso, lo è ancora di più che adesso, improvvisamente consapevole, ne avverta il fastidioso effetto sulla pelle umida. Prende dallo zaino un pullover leggero, lo indossa e parte.
Si avvicina camminando al punto in cui la cresta si impenna, pochi passi che servono per tornare definitivamente alla realtà, immergersi con umiltà nel delicato mondo che lo circonda allertando ogni senso. E' necessario infatti che i suoi pensieri siano tutti rivolti a quanto sta facendo, che gli occhi guardino con attenzione, che le orecchie ascoltino, distinguano le sfumature nei suoni emessi dalla roccia mentre la tocca, e che le mani tocchino, colpiscano delicatamente, di rimando registrino ogni vibrazione. Col naso poi riempie d'aria i polmoni mantenendo lucido il cervello e nella bocca sente l'aroma della tensione, della paura controllata con la quale deve convivere, riuscendo anche a misurarla.
Una paretina verticale con appigli poco definiti gli crea qualche problema; lui l'accarezza, ne comprende le rugosità, ne misura la compattezza, mima per un pubblico che attende nella sua mente i movimenti necessari per giocare con lei, torna a sfiorarla, chiude gli occhi e danza sulla pietra, quindi li riapre ed è sopra.
Si volta raramente, forse perché sta cercando una condizione in cui il passato non conti, in cui sia il presente, o l'immediato futuro a dimostrarsi importante. Il passato è crudele perché ha unghie lunghe e potenti, lo è soprattutto con chi non riesce ad elaborare anticorpi capaci di attutirne le ferite; ci sono persone che corrono per lasciarlo indietro, si illudono, ed altre che si drogano d'emozioni istantanee, come lui, molti poi ne limitano gli effetti mascherandoli con gioie tangibili, o dolori, o preoccupazioni, ma a volte nella notte non riescono a frenare le lacrime, i più, però, semplicemente lo dimenticano aiutati dall'insensibilità, dall'egoismo, dalla stupidità: questi, ad un esame superficiale, paiono fortunati.
Esistono passati differenti, graffiano tutti, ma i segni restano solo a chi ha carne e sangue.
La prima cima è alle spalle, è stato facile raggiungerla; scendendo verso il valico detritico che la separa da un pittoresco campanile roccioso, la sua attenzione è attratta dalla piccola vedretta che ripidissima cala a sinistra per almeno trecento metri: il ghiaccio vivo si mostra nelle varie tonalità del grigio e improvvisamente scompare là sotto tradendo la presenza di un salto. Lontano le vette sono numerose quanto le stelle la notte, ma più vere.
La guglia non è aggirabile, forse l'avrebbe affrontata lo stesso. Dalla base appare come un muro compatto inciso da un canale che leggermente tende a sinistra pur mirando i pressi della probabile cima. Ora ha paura, riesce a sentire distintamente il battito del suo cuore, ordina ai polmoni di rallentare, di gonfiarsi lentamente, vuole avvertire la risposta potente dei pettorali sugli spallacci dello zaino, vuole che la pacatezza profonda di un respiro passi al cervello e che questo la trasmetta a braccia e gambe... però continua ad avere paura.
Alza lo sguardo e cerca indicazioni che sa di non poter trovare; già una volta è rimasto appeso a un terrazzino a decine di metri d'altezza, mancava una presa, solamente una, necessaria ad issarsi al sicuro, l'ultima: "... in montagna se manca un appiglio è sempre e solo quello importante... un'affermazione apparentemente stupida che però non bisogna dimenticare se non si vuol fare una fine certamente stupida... è spaventoso capire di non essere in grado di reggersi, una sensazione capace di annullare istantaneamente sicurezza e gioia derivanti dai tanti passaggi affrontati e superati per arrivare di fronte ai pochi centimetri che non riesci a vincere, e le forze calano, le dita fanno male e vogliono cedere, e la mente viaggia a mille chilometri all'ora provando, se sei fortunato, a convogliare energia dove serve, a ipnotizzare se stessa per obbligarti ad un nuovo tentativo, prima di finire..."
Quella volta la disperazione l'aveva aiutato ad allungarsi più di quanto avrebbe mai creduto di poter fare e la sorte gli aveva regalato una piccola crepa friabile, ma non aveva più dimenticato l'orribile impressione causata dal convulso tremore delle gambe che tanto tempo dopo essere uscito dall'incubo ancora gli impediva di camminare.
C'è qualcosa che distingue chi è sensibile al fascino di un picco di roccia inutile e privo di valore per i più, che lo rende pronto a giocarsi tutto su una parete che nessun significato ha per gli altri e che spesso, passata l'eccitazione, questa discontinuità del genere umano neppure ricorda, e si può riassumere in un interruttore che momentaneamente spegne alcune spie, luci importanti come i lampioni di notte che ti fanno procedere tranquillo, ma pure limitanti come i lampioni di notte che ti impediscono di vedere la via Lattea.
E poi lo spinge la paura, quella che lui adesso cerca, tanto forte da lenire il dolore di ferite che non stanno guarendo.
Il canale non risulta difficile, occorrono soprattutto equilibrio e morbidezza nei movimenti, specie nei punti in cui le pareti si avvicinano obbligando a procedere in contrapposizione. E' abile, efficiente, lui non è mai stato forte, ma esperienza e convinzione lo guidano e a pochi metri d'altezza è già tranquillo. Nella mente può librarsi nell'aria, vola lasciando a terra ogni zavorra, sogna che la cima è oltre, che la frattura nella pietra sale fino a lei, per sempre, e lui salirà per sempre, fino a lei, per sempre.
Ha di nuovo creduto che il mondo gli appartenesse, disabitato e misterioso, ma completamente suo; forse è più giusto dire che si è sentito parte di un mondo infinito che nulla può mutare, dove spazio e tempo sono termini privi di significato, e si è sentito libero di percorrerlo al riparo di ogni attacco, specie da quelli della malinconia. Ora, subdola, è tornata, un minimo calo di tensione ed è tornata perché ha origine nel suo cervello, trae energia dal suo cuore. Lui ne conosce la causa, ma non il rimedio, sa distrarla con canali più ripidi, con prese più piccole cosicché l'umana paura della morte possa per un attimo allentare la morsa della tristezza, ma non riesce a vincerla, o non vuole riuscirvi perché in tal modo è più facile sopportare di essere solo: "... ogni pietra ricorda qualcosa, maledizione, ogni forma, ogni immagine reale ne evoca altre che reali non sono più, sempre felici... sempre felici... un supplizio senza fine perché ero felice... sono stanco, maledizione..."
Sta camminando lungo una cresta che man mano si assottiglia, definita a destra, a sud, da una parete di rocce fratturate alta pochi metri, poi una decina, poi altissima, e a sinistra da un pendio franoso che aumenta la sua inclinazione fino a mostrarsi quasi verticale, un baratro dall'aspetto instabile che termina laggiù in una desolata conca morenica resa appena meno tetra da sottili striscie di neve che confluiscono in un laghetto effimero la cui presenza è tradita unicamente da un casuale, leggerissimo riflesso, tanto è limpida la sua acqua e candido il suo alveo di ghiaccio.
Improvvisamente, come può succedere in montagna e a lui ovunque, il momento diventa drammatico: avanza, ma non vede più perché ciò che ha attorno è stato progressivamente coperto da uno schermo tridimensionale in cui vengono proiettate scene passate... eppure avanza. Percepisce il pericolo, lo spazio utile che cala, la consistenza del terreno che manca... eppure avanza, ipnotizzato, non incurante, avanza perché il suo sguardo è fisso su entità che oramai abitano un mondo che non c'è, perché la sua mente stanca di lottare, ma capace di illudere, plasma ciò che gli occhi subito le rispediscono in un reiterato inganno, permettendole di riposare, di provare a sopravvivere, pateticamente. Ma quassù un'avventura durata quaranta anni rischia di terminare senza una fine che valga la pena di raccontare.
Un'ombra. Qualcosa si muove, tangibile, squarcia il velo e lentamente prende forma a pochi metri di distanza costringendolo a fermarsi: uno stambecco, giovane, ma già imponente, adesso immobile, con lo sguardo curioso e profondo, la testa leggermente inclinata a destra, lo fronteggia ben saldo su zampe invincibili.
L'uomo si volta e vede la lunghissima cresta appena percorsa, la modella in quel momento, poi nota lo strapiombo da un lato e l'orrido pendio frantumato e in equilibrio precario dall'altro, infine osserva, senza fissarlo troppo, l'animale davanti a sé, sempre fermo, con le sfumature e la determinazione della pietra che lo circonda. Ora capisce: lo stambecco vuole, o deve semplicemente andare oltre e sta studiando il modo di rischiare il meno possibile, sta chiedendosi se il colorato collega dall'aspetto trasandato che gli impedisce di procedere sia realmente innocuo come sembra, se sia in grado di intuire le sue pacifiche intenzioni. E lui, l'uomo solo, può farlo proprio grazie alla triste condizione in cui si trova, che l'ha allontanato dalle convenzioni, dalle sicurezze, ma anche dai limiti di una vita comune in cui tutto e tutti hanno un ruolo definito, spesso banale, dove una bestia è un pezzo di carne che cammina e non un essere che pensa, che prova sofferenza, felicità, così decide di calarsi a destra dove pare esistere qualche appiglio solido e soprattutto una cengetta capace di sostenerlo.
Lo stambecco ne segue i lenti movimenti, avanza, accelera mentre oltrepassa il punto da cui lui è sceso, ma subito dopo si ferma, curva il collo e torna a guardarlo.
Trascorrono i secondi, diventano minuti e nessuno dei due cambia posizione, si osservano in silenzio quasi volessero prolungare all'infinito l'incantesimo, o imparare a comunicare col pensiero convinti che basti l'intenzione per riuscire a farlo.
E' certo che l'animale sta aspettando qualcosa perché potrebbe volare libero come un sogno, balzare e fulmineo sparire come quel sogno, eppure attende: "... è inverosimile che desideri vedermi al sicuro, non ha senso che gli importi di me… non mi crederà nessuno… d'altronde a chi potrei raccontarlo oramai... vai via, lasciami in pace..."
Nulla cambia, la situazione è cristallizzata, resa irreale da un ambiente di selvaggia bellezza dove vita e morte sono la stessa cosa, ma dove lo stambecco è padrone assoluto, divinamente giusto e perciò insensibile alla disperazione che l'uomo lì sotto fatica a contenere, all'umore maligno che piano piano sta rompendo gli argini, dal cuore e dalla mente fluendo verso i pori.
Cede perché è il più debole, risale confuso in cresta, resta accovacciato per ritrovare l'equibrio quindi si alza, sistema il berretto accarezzandosi la testa e guarda la splendida creatura che solamente adesso si allontana, tranquilla.
Anche lui riparte, ma presto è costretto a fermarsi, a sedersi perché non riesce più a controllare il tremito; con le mani si copre gli occhi e lascia che le lacrime scorrano libere.
Forse fra qualche minuto sarà come prima... o forse è un nuovo inizio.

Gianluca Carboni

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